La pandemia Covid-19 ha avuto un impatto specifico sulle donne migranti richiedenti asilo e rifugiate, aggravando le disuguaglianze di genere e socioeconomiche preesistenti e generando nuove criticità.
È quanto emerge dal rapporto “Emergenza sanitaria e confinamento: l’impatto sull’accoglienza di donne migranti richiedenti asilo e rifugiate nei centri antiviolenza della rete D.i.Re”, realizzato nell’ambito del progetto Leaving violence. Living safe, coordinato da D.i.Re – Donne in rete contro la violenza in partnership con UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i/le rifugiati/e.
Nel periodo 1 marzo – 30 aprile 2020, i 40 centri antiviolenza della rete D.i.Re che hanno partecipato al sondaggio hanno accolto 70 donne migranti richiedenti asilo e rifugiate, di cui il 17 per cento (12 donne) ha effettuato un primo accesso durante questo periodo, il 9 per cento (6 donne) un nuovo accesso dopo un percorso precedente che si era concluso, e il 74 per cento (52 donne) si trova in continuità di percorso dopo essere state accolte per un primo accesso prima del 1 marzo 2020.
Si tratta in larga parte di donne giovani: il 77 per cento ha tra i 18 e i 29 anni. La maggior parte di loro, pari al 74,2 per cento, proviene dalla Nigeria. Seguono Perù (5,7 per cento), Venezuela e Marocco (2,9 per cento), e con l’1,42 per cento Tunisia, Eritrea, Ghana, Guinea, Liberia, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Messico, Brasile e Albania.
Tra loro le rifugiate sono il 40 per cento, le richiedenti asilo il 36 per cento, mentre le restanti hanno un regolare permesso di soggiorno, un permesso di soggiorno ex art. 18 o hanno ottenuto la protezione sussidiaria.
I due terzi delle donne accolte nei centri antiviolenza D.i.Re durante il periodo di confinamento hanno effettuato un accesso autonomo (57%) o sono state inviate dai servizi antitratta (10%) spesso gestiti dagli stessi centri antiviolenza, una tendenza già osservata prima del lockdown. Limitati invece gli invii effettuati dai centri di accoglienza, dalle Commissioni territoriali o da altre strutture.
La tratta e lo sfruttamento sessuale sono dunque le forme di violenza più rilevate: riguardano rispettivamente il 74 e il 63 per cento delle donne seguite dai centri tra marzo e aprile 2020.
“Il confinamento ha reso ancora più arduo l’accesso ai centri antiviolenza da parte delle donne migranti rifugiate e richiedenti asilo, esacerbando alcune delle barriere che già precedentemente impedivano un accesso significativo a queste donne e aggiungendone di nuove”, si legge nel rapporto, curato da Laura Pasquero con il supporto delle coordinatrici del progetto, Elena Cirelli e Rebecca Germano.
“La limitata collaborazione da parte dei centri di accoglienza, che già in tempi ‘normali’ a volte non consentono a operatrici e mediatrici D.i.Re di accedervi per informare le donne sui centri antiviolenza – si è acutizzata nel periodo di confinamento”, prosegue il rapporto.
Inoltre la sospensione dei colloqui di persona nei centri antiviolenza, “offrendo come unica alternativa i servizi di accoglienza telefonici e destinati alle emergenze” ha reso più difficile il supporto. “In queste circostanze, le barriere linguistico-culturali, che nei centri D.i.Re vengono mitigate grazie alla mediazione culturale e al linguaggio non verbale, sono diventate un grave ostacolo durante il lockdown nel contesto di un accesso unicamente telefonico”.
Infine da notare il fatto che le donne accolte durante il periodo di lockdown hanno segnalato soprattutto bisogni legati a necessità finanziarie, ricerca di lavoro, accesso ad opportunità formative, al di là dei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Il sostentamento anche per loro in questo periodo è diventato più difficile.